In alcuni settori minoritari della Chiesa (lo vediamo anche nei dibattiti in questo blog), sono ricorrenti le accuse alla riforma liturgica di non essere stata fedele in tutto al dettato della Costituzione conciliare: si parla, in particolare, della lingua liturgica, dell’altare rivolto al popolo, della profonda trasformazione dell’offertorio della messa, ma anche del lezionario, della Liturgia delle Ore, ecc.
Dobbiamo dire anzitutto che è necessario fare una lettura intelligente della Costituzione conciliare, perché la “parte” sia compresa a partire dal “tutto”, e le determinazioni pratiche siano inquadrate nel contesto di una riforma che il Concilio non poteva determinare e realizzare nelle sue norme concrete, ma soltanto ispirarla nei suoi principi generali (Cf. P. Tomatis, Una liturgia per il popolo di Dio, in L. Rolandi (ed.), Il futuro del Concilio. I documenti del Vaticano II: un tesoro da riscoprire [La fede in dialogo], Effatà Editrice, Cantalupa, Torino 2012, p. 48).
Un modo di risolvere le apparenti contraddizioni tra dettato conciliare e riforma liturgica postconciliare, potrebbe essere partire dal principio della “gerarchia delle verità”.Credo che sia condivisibile per tutti che non tutte le verità, affermazioni o norme di un documento conciliare o magisteriale hanno lo stesso valore o importanza.
Mi limito al caso specifico della lingua liturgica, problema che è stato sollevato più volte in questo blog. La questione della lingua fu oggetto di animate discussioni. Lo scontro in aula conciliare fu lungo e ebbe come risultato una soluzione di compromesso. Vorrei collocare questa problematica nella cornice più ampia dell’intera Costituzione. La SC dedica ben 7 numeri (dal 14 al 20) alla “educazione liturgica” e alla “partecipazione attiva” e stabilisce con decisione il principio della partecipazione attiva.Poi, quando affronta le norme per attuare la “Riforma della sacra liturgia”, si afferma anzitutto il carattere dialogante della liturgia: “Dio parla al suo popolo” e il “popolo a sua volta risponde a Dio” (n. 33). Se la liturgia ha un carattere dialogante, di ascolto e risposta, il rito (segni e parole) deve avere una certa comprensione. Ecco quindi che al n. 34 si stabilisce che “i riti rifulgano per nobile semplicità; siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, in genere, di molte spiegazioni”. Non c’è dubbio che qui ci troviamo dinanzi ad una serie di principi che devono guidare la riforma della liturgia. Ma più avanti, la Costituzione SC, al n. 36, § 1, stabilisce: “L’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini”. In seguito, nel § 2 dello stesso numero, si afferma che “non di rado l’uso della lingua viva può riuscire assai utile per il popolo” e quindi si determina che “vi sia la possibilità di concedere ad essa una parte più ampia…”. Questo comma 2, che fu oggetto di lunghi dibattiti nell’aula conciliare, si presenta nella sua espressione letterale in qualche modo come correttivo del comma 1. Qui troviamo traccia di uno di quei “compromessi” che hanno caratterizzato l’opera del Vaticano II, e che darà adito ad un dibattito permanente sull’interpretazione dei testi (Cf. P. Prétot, A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Per una rilettura della Sacrosanctum Concilium, in Ph. Chenaux – N. Bauquet (edd.), Rileggere il Concilio. Storici e teologi a confronto, Lateran University Press, Città del Vaticano 2012, p. 54).
Anche se giuridicamente le norme di una stessa fonte hanno uguale valore a meno che la fonte stessa esplicitamente stabilisca il contrario, sarebbe opportuno domandarsi se tra le norme della Costituzione liturgica è possibile stabilire una determinata gerarchia o diversità di rango. Quale criterio per stabilire questa gerarchia? Credo che il criterio principale è da cercarsi nel diverso rapporto che le suddette affermazioni della Costituzione hanno in relazione alla natura della liturgia. Un principio che appartiene alla natura della liturgia è quello che SC stabilisce al n. 7 quando afferma che la Chiesa, “prega al suo Signore e per mezzo di lui rende culto all’eterno Padre”. Principio che il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega molto bene quando alla domanda “Chi celebra?”, risponde, tra l’altro, “l’assemblea che celebra è la comunità dei battezzati” (n. 1140). Quindi il principio della partecipazione dell’assemblea riguarda la natura stessa della liturgia, partecipazione che richiede una certa “comprensione” del rito di cui i fedeli sono soggetto attivo.
Non si può affermare lo stesso della lingua latina, la quale non appartiene alla natura della liturgia, ma è solo un mezzo, anche se rientra in qualche modo nel valore simbolico dell’azione liturgica. E’ un fatto storico, che non ha bisogno di grandi spiegazioni, che la celebrazione della liturgia è stata celebrata ed è celebrata in diverse lingue.
Alcuni credono che Paolo VI è andato oltre la lettera del n. 36 della SC e, aggiungo, aveva il potere per farlo. Noto però che il Pontefice ha conservato il latino come lingua delle edizioni tipiche dei libri liturgici e quindi la possibilità di celebrare in latino. Pian piano è stato chiaro che i principi di intelligibilità e di partecipazione attiva, proclamati dal documento conciliare, non erano compatibili con la conservazione di una parte significativa della messa in una lingua che comprendevano solo (e talvolta a malapena) i sacerdoti. La Costituzione possedeva quindi in sé stessa un dinamismo sufficiente per provocare dei cambiamenti ben oltre le disposizioni specifiche, ma sulla base dei principi fondamentali che essa stessa conteneva. Non dimentichiamo che la parola è relazione, comunicazione, conoscenza, amore, vita. “La lingua non deve velare, ma scoprire; essa non sta a significare l’isolamento nel silenzio della preghiera individuale, bensì l’avvicinamento degli uni agli altri per unirsi nel ‘noi’ dei figli di Dio che insieme dicono ‘Padre nostro’” (J. Ratzinger, Allocuzione al Katholikentag (luglio 1966). Citato da P. Prétot, A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, in o.c., p. 56).
L’introduzione della lingua parlata non è solo una operazione che rende più comprensibile il contenuto della preghiera e dei riti in genere. Pregare con la propria lingua muta radicalmente il nostro rapporto con il mistero di Dio. Pregando con il tessuto della nostra lingua, Dio si fa prossimo nell’alfabeto della vita umana, il cristianesimo si fa domestico, la liturgia diventa condizione di verità della fede praticata (Cf. F. G. Brambilla, Il Concilio Vaticano II, “bussola” per la Chiesa, in Teologia dal Vaticano II. Analisi storiche e rilievi ermeneutici, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, p. 18).
Al centro dell’attenzione non c’è più soltanto il messaggio che una lingua venerabile come il latino, ma morta, poteva custodire, ma i destinatari del processo comunicativo che avviene nella liturgia, con la loro lingua e la loro cultura. Non si deve però dimenticare che l’uso della lingua viva non deve scadere a puro veicolo che pretende di annullare la distanza rispetto all’evento celebrato cancellando lo scarto tra l’ordinario della vita e lo straordinario della salvezza. La lingua viva è al servizio della partecipazione, la quale si esprime attraverso una pluralità di modalità: certamente la razionalità, ma strettamente connessa a questa, anche l’azione e l’emozione. Il ricorso alla lingua viva solo per ragioni di comprensibilità non renderebbe ragione del valore complesso, simbolico e di mediazione della lingua liturgica e non favorirebbe la partecipazione che, in quanto attiva, non può essere soltanto consapevole, ma deve essere totale (Cf. L. Della Pietra, Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale, Messaggero, Padova 2012, p. 383).
Matias Augé
Ho pubblicato questa riflessione,dell'ottimo liturgista e teologo salettiano P.Matia Augè, perchè risponde,in parte,alla ,ormai ripetitiva e pretestuosa, accusa secondo la quale la riforma liturgica post Vaticano II sarebbe andata oltre le intenzioni della costituzione dogmatica Sacrosantum Concilium.Gli stessi che fanno questi discorsi parlano ancora della lettera di Arinze(privata),della "sola"della feria IV,più volte annunciata dal vaticanista "beneinformato" Magister.Si rassegnino pure gli "osservatori" e simili quello che sognano,non accadrà.Non ci sarà alcuna feria IV,nessuna cesura delle celebrazioni del sabato sera, nè dell'art.13 dello Statuto.Il famoso dossier della ancor più famosa e fantomatica "commissione",di cui si è fantasticato a lungo,ammesso che esistesse realmente ,ha fatto,secondo me, la fine che meritava cioè il macero.
Per fortuna ha prevalso il sano realismo di Papa Francesco il quale ha capito che alcuni, anche ecclesiatici, rincorrono le favole,vivono fuori dalla realtà,volendo salvare una idea di liturgia "perfetta"ovattata più che le anime.
Per me le celebrazioni del sabato sera restano un MODELLO ECCELENTE della riforma liturgica come ebbe a dire Mons.Annibale Bugnini nella nota laudatoria del 1974.I modelli buoni si imitano e sono certo che ,passata questo ondata revisionista anti Concilio Vaticano II e anti riforma liturgica,si torneranno ad apprezzare anche come modello di attiva e fruttuosa partecipazione.
FRATELLI DEL CAMMINO NON INTERVENITE SUL BLOG "OSSERVATORIO"NON VI ACCORGETE CHE SONO SEMPRE GLI STESSI SFIGATI AD INTERVENIRE?NON ALIMENTATE LE LORO STUPIDE DISCUSSIONI.