Cari amici poniamo fine alla demenziale discussione sui cimiteri,funerali,notai e altre stupidaggini che mostra la scarsa serietà,per usare un eufemismo,del blog "osservatorio sul Cammino Neocatecumenale secondo verità".Perdere tempo con queste stupide discussioni è un peccato imperdonabile,lasciamo quindi DG e altri commedianti "osservatori"alle loro farneticazioni ridicole.Spostiamo la nostra attenzione su un altro tema ben più importante e serio che è l'uso della lingua volgare 'nella liturgia.Traggo questo thread dal blog di Padre Matias Augè liturgista di valore.
Dopo il Concilio Vaticano II, l’uso del volgare è stato introdotto, nel corso di pochi anni, nell’intero settore delle celebrazioni liturgiche. Qui mi soffermo brevissimamente in modo particolare sul caso specifico della Messa. Nel 1964, l’Istruzione Inter oecumenici, stabiliva al n. 58: “solamente la Sede apostolica può concedere l’uso del volgare nelle parti della Messa che sono recitate o cantate dal solo celebrante”. Questo divieto viene meno tre anni dopo: nel 1967, l’Istruzione Tres abhinc annos, al n. 28, permetteva l’uso della lingua parlata anche “nel canone della Messa”. Il card. Giacomo Lercaro, presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra liturgia, in una successiva lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali sui "Problemi della riforma", firmata il 21 giugno 1967, affermava al n. 7: “Dal marzo scorso, il santo Padre ha accondisceso alla domanda di numerosi episcopati di ammettere la lingua parlata anche nel canone della messa e in tutto il rito dei sacri ordini.Questa concessione vuole permettere al popolo cristiano di comprendere meglio le ricchezze spirituali di queste celebrazioni e di trarne maggior profitto. Ciò è conforme ai principi della costituzione conciliare sulla sacra liturgia che non ha posto alcune restrizione di principio per l’uso della lingua volgare nella liturgia. Dopo il punto di partenza iniziale (nell’Istruzione Inter oecumenici, sopra citata) e l’estensione della lingua parlata al prefazio (27 aprile 1965), questa è l’ultima tappa per la graduale estensione del volgare”.
Paolo VI, nei suoi discorsi è intervenuto più volte a difesa di questa totale apertura all’uso del volgare. Nello stesso anno 1967, il 19 aprile, nella chiusura dell’VIII sessione plenaria del Consilium, il Papa affermava che la questione della lingua liturgica non è “risolubile in senso contrario al grande principio, riaffermato dal Concilio, della intelligibilità, a livello di popolo, della preghiera liturgica, non che a quell’altro principio, oggi rivendicato dalla cultura della collettività, di poter esprimere i propri sentimenti, più profondi e più sinceri, in linguaggio vivo”. Come lo stesso Pontefice aveva detto nell’Angelus domenicale del 7 marzo del 1965, domenica in cui “la lingua parlata entrava ufficialmente nel culto liturgico”, questa scelta era stata fatta “per voi fedeli, perché sappiate unirvi meglio alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi”. Non si tratta quindi solo di capire; il ricorso alla lingua viva solo per ragioni di comprensibilità non renderebbe ragione del valore complesso, simbolico e di mediazione della lingua liturgica e non favorirebbe la partecipazione che, in quanto attiva, non può essere soltanto consapevole, ma totale.
M. A.