martedì 8 ottobre 2013



Pubblico un articolo, tratto dal blog del teologo Andrea Grillo, nel quale si risponde alle obiezioni sollevate da un altro teologo,Pietro De Marco,sul Pontificato di Papa Francesco.Lo pubblico perchè lo condivido in pieno ma anche perchè risponde a certi discorsi che si leggono  sui blog filotardizionalisti e in modo meno evidente,sul blog "osservatorio" sul cammino neocatecumenale secondo verità".

A chi su blog "osservatorio sul cammino nocatecumenale secondo verità"mi accusa di aver chiuso il blog e di non permettere i commenti,facendo notare che il Papa dialoga con l'ateo Scalfari,rispondo che ,se esiste un blog chiuso, è proprio il loro.Per anni ho tentato di dialogare,spiegare,arrivare ad un dialogo ma gli "osservatori"non hanno voluto.Quando intervenivo sul loro blog venivo,puntuamente e sistematicamente, strumentalizzato,censurato,insultato.Se quel blog fosse stato meno in malafede e fazioso non avrei mai aperto questo blog.

Inoltre l'esempio di Scalfari è del tutto fuori luogo in quanto,questo giornalista e scrittore,pur essendo ateo ,è stato ed è un uomo di specchiata sincerità e onestà intellettuale.Non è certo in malafede come Trippone (Tripudio),'O strologo(Lino) e compagni.Gli "osservatori"sono persone bugiarde,ipocrite,insincere,capaci solo di attacchi personali,subdoli e vigliacchi,mistificazioni,calunnie.Con persone simili nessun dialogo è possibile,in quanto manca il requisito fondamentale,la sincerità.Non resta che ignorarli.

Non ho intenzione quindi di perdere altro tempo a correre indietro alle scemità dell'
"osservatorio".Rinnovo,per l'ennesima volta,l'invito ai fratelli del Cammino a lasciarli perdere.   

Da blog di Andrea Grillo


Caro Pietro,

Ho letto con interesse, ma anche con preoccupazione il tuo scritto su papa Francesco (cfr. http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/10/02/de-marco-su-papa-francesco-in-coscienza-devo-rompere-il-coro), che ha la forma inequivocabile di una riflessione appassionata, ma in più di un caso si trasforma in “sfogo” e in “invettiva”. So che la tua indignazione è in buona fede. Forse potevo anche aspettarmela. Forse avrei dovuto prevedere che molte delle cose che hai scritto, con eleganza, nel libro sul Motu Proprio “Summorum Pontificum”, in dialogo con me, avrebbero trovato nel papato di Francesco una forma e un contenuto talmente “lontano”, da suscitare in te un modo di reazione, quasi di ribellione.Meglio chi si ribella esplicitamente e mettendosi in gioco, rispetto a chi cova la ribellione sotto le forme di una approvazione insincera.Allora ho pensato, quasi immediatamente, che fosse mio dovere provare a leggerti il più possibile “in bonam partem”, come merita la tua serietà e l’amicizia che ci lega, ma anche con quella parrhesia che non ci siamo negati nello stendere le pagine di quel libro al quale ho fatto prima riferimento.Anzitutto il tuo “esordio” mi colpisce: tu intendi “rompere il coro di consensi” che circonda il nuovo papato, per denunciare in primo luogo delle “approssimazioni” che papa Francesco avrebbe reiteratamente commesso, nelle molte sue interviste, omelie, risposte, lettere, allocuzioni.Già qui io vorrei provare a cambiare il tuo punto prospettico di osservazione. Tu dici: un Papa non può parlare così. E hai dalla tua la forza di una lunghissima e autorevolissima tradizione, nella quale, effettivamente, i papi non hanno mai parlato così. Ciò che mi sembra resti del tutto fuori dal tuo campo visivo è l’esigenza che quella lunga a antica tradizione possa e debba cambiare. E questo, guarda bene, non è l’invenzione del papa che viene “dalla fine del mondo”, ma è una esigenza centrale e inaggirabile sollevata dal Concilio Vaticano II, che ha chiesto a tutti, e in primis ai papi, una grande e urgente conversione. Prima di tutto a livello di linguaggio.Qui, vedi, caro Pietro, a me sembra che sia in gioco il senso del Concilio Vaticano II e della sua “svolta”: non dimenticare che ci sono teologi molto seri (come Lafont) che hanno detto che questo XXI Concilio ecumenico ha, sotto il profilo del linguaggio, un valore pari al Concilio di Nicea. E per questo il primo papa “pienamente figlio del Concilio” non a caso si segnala per una libertà di parola che si potrebbe definire “approssimazione” solo se lo si valutasse soltanto con il metro della Chiesa medievale e moderno, non con quello – che è l’unico giusto – della Chiesa contemporanea e postconciliare. Quando dici “approssimazione” sembra che tu non tenga conto di questa benedetta evoluzione, che ha già trovato forma e misura in Paolo VI, in Giovanni Paolo II e in Benedetto XVI, sia pure in una  maniera embrionale, timida e spesso anche contraddittoria, cosa che è dovuta proprio al fatto che quelli erano “padri” o “periti” del Concilio, mentre questo è diventato prete e gesuita nella Chiesa postconciliare.Sono rimasto molto stupito che tu abbia liquidato questa novità come un limite. Ma come! In quale tempo doveva essere educato un uomo argentino del 1936 e ordinato nel 1969? La differenza da Benedetto XVI non è grande, quanto ad anni, ma decisiva quanto a formazione. Aver fatto il seminario negli anni 40  ed essere stato ordinato nel 1951 crea una differenza di sensibilità dove la differenza biografica di 9 anni diventa differenza generazionale. Se a questo uniamo l’ esperienza europea e quella sudamericana, dobbiamo riconoscere che il tuo giudizio sul “tipico gesuita frutto del Concilio” è ingeneroso tanto verso il gesuita (e i gesuiti) quanto verso il Concilio (e la sua giusta ermeneutica).Proprio qui, a mio avviso, si trova quel nodo che ti impedisce di cogliere il valore paradigmatico di papa Francesco come “figlio del Concilio”. Intendo come figlio legittimo e naturale insieme, senza distinzione di grado, mentre tu usi non mai l’immagine della generazione, quanto quella della “degenerazione” e lo chiami “conciliare” quasi come se fosse una sua colpa. E non è un caso che tu ti sia aggrappato, per questa tua analisi, a quelle che ritieni le “grandi attuazioni” del Concilio, ossia quelle di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. In questo tuo passaggio dipendi troppo da riletture diffidenti e preoccupate del Concilio, che non a caso proprio nel tardo pontificato del primo e nel pieno del pontificato del secondo hanno trovato la loro espressione più sorprendente. E tuttavia tu non tocchi un punto decisivo. Nella tua lettura, che è legittima e appassionata, c’è un duplice punto cieco. E cioè il fatto che il revisionismo conciliare sia cominciato con la fase finale del papato di Giovanni Paolo II dove la malattia ha profondamente minato la conduzione della Chiesa da parte di Karol Woytila, e poi si è concluso a sorpresa con la rinunzia di Benedetto XVI.  Quella ermeneutica del sospetto verso il Concilio è nata in un vuoto di potere e si è compiuta lasciando a sua volta un vuoto di potere, ma chiedendo ufficialmente e apertamente una svolta.i questo la Chiesa cattolica aveva bisogno: di una svolta non indietro, ma avanti. Anche qui, tu tendi a leggere Bergoglio come un “modernista postconciliare”, segnato dalla vicenda politica sudamericana e quasi “fissato” a quella stagione. Io credo invece che questa ripresa del percorso autenticamente conciliare possa dare speranza e fiducia ad una Chiesa che, proprio sotto l’ultimo Giovanni Paolo II e sotto Benedetto XVI, troppo si era spaventata per ciò che il Concilio le chiede da 50 anni e si era fermata, diventando esitante e nostalgica.Su una cosa sono del tutto convinto con te: che questo inizio folgorante di papa Francesco debba trovare forme istituzionali per diventare pienamente efficace. Ma anche su questo a me pare che papa Bergoglio abbia non solo parlato, scherzato, ammonito o spiazzato, ma ha nominato, decretato, formato commissioni, dato orientamenti istituzionali non piccoli. E’ l’inizio di un inizio. E’ l’inizio di una nuova generazione di Vescovi e di Cardinali, di un linguaggio ecclesiale e di una forma della relazione che debbono ritrovare le vie migliori per la testimonianza.Capisco bene il tuo stupore: per chi come te ha scritto in anni recenti una lode pubblica della Cappa Magna, lo stile Bergoglio non può non suscitare forti perplessità. La lunghezza dello strascico è uscita effettivamente dal linguaggio curiale.  Tuttavia, come ben sai, per me quelle prospettive erano solo l’ultimo colpo di coda di un mondo che non c’è più e non può esserci più. Tu pensavi che potesse essere, invece, il correttivo necessario per una diversa attuazione del Concilio Vaticano II.Ciò che auspico, tuttavia, è che il senso della tua analisi non voglia smentire la fiducia che il cammino ecclesiale possa trovare, nella grande novità costituita da papa Francesco, non il principio di dissoluzione della sua tradizione, ma la novità di cui la tradizione ha sempre bisogno. Di fronte a questo non è così semplice evitare di vestire i panni del profeta di sventura, neppure per un osservatore attento e acuto come sei tu. Ma sono certo che, con il tempo, sarà sempre più chiaro come questa novità non sia una minaccia, bensì un prezioso e coraggioso servizio alla tradizione.Nel far mio questo auspicio, vorrei solo ribadire, a me come a te, che il “caso Bergoglio” è un caso serio, che non può essere liquidato troppo facilmente con forme di argomentazione troppo apologetiche e troppo poco “conciliari”, come anche attraverso le retoriche giornalistiche o semplicistiche (spesso purtroppo non così distanti tra loro).Tutto questo non mi impedisce di confermarti la mia stima e la mia amicizia, sia pure nel benedetto dissenso che non genera guerra ma pensiero, con la speranza che possiamo avere ancora modo di discutere sulle forme sorprendenti e spiazzanti con cui il Vangelo sa farsi storia e la storia sa recepire il Vangelo.